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«Ma come parli?» Frasi fatte e parole odiose
IO AGGIUNGO ANCHE IL "VOLENTIERISSIMO"... :-))) «Ma come parli?» Frasi fatte e parole odiose L'«attimino» imperversava negli anni 90. Ora va il «trendissimo». Non si salva nessuno: dal «tamarro chic» al manager Maria Laura Rodotà (www.corriere.it) TEMA DELLA SETTIMANA - Le frasi fatte e le parole odiose. Su Avanti Pop, i forumisti si sono espressi con decisione e sagacia (criticati causa necessità personali dalla coordinatrice, che sarei io, solo quando è stato bocciato il romanesco «vabbè»; per la coordinatrice, sempre io, rinunciare a dirlo sarebbe come smettere di bere cappuccini, una tragedia). I termini-espressioni esposti al pubblico ludibrio sono divisibili in vari sottogruppi. VORREI MA NON POSSO - Esclusivo, Vip, trend, eccetera. Giusto. Cartellino rosso. Gli unici esonerati sono i fans confessi di Flavio Briatore. Tutti gli altri sono esonerati dal conversarci, va da sé. VETERO-LUOGOCOMUNISTI - Assolti con riserva. La rivolta collettiva contro le espressioni insopportabili cominciò negli anni Novanta con la diffusione della parola «attimino». Chi ancora lo dice, francamente, fa tenerezza. Oppure è talmente snob da usarla provocatoriamente, tipo revival ironico; in quel caso va affettuosamente mandato a fare cose irripetibili. FINTO RISOLUTI - Dicono «assolutamente sì», che è l’attimino socialmente ripulito del nuovo millennio. Assolutamente preoccupanti. Quando lo dicono, non c’è da fidarsi. TAMARRO CHIC - Quelli che usano espressioni giovanili per esorcizzare il timore del prepensionamento, o dell’invecchiamento semplice. Peccato veniale. Specie in caso di «strafigo» (anglicizzato in «strafàigo», anche), «pazzesco», «cià», «troppo bello» (lo diceva il paninaro di Drive in, che diamine). Più grave (e giustamente segnalato) rivolgersi a camerieri, guidatori di autobus e altri con l’appellativo «capo». Bisogna aver il coraggio di chiamare «capo» con quel tono il proprio megadirettore galattico (quello di Fantozzi) per essere veri uomini/donne, altrimenti non vale. ANTIMILANESI - La coordinatrice (sono sempre io) vive a Milano da quasi quattro anni ed è ormai in preda alla sindrome di Stoccolma. Per cui appoggia teneramente. Sia i diminutivi, cellularino, carnina, cafferino, cinemino (denotano tentativi di calore umano); e ancor più gli accrescitivi, battutone, sorpresone, weekendone, festone (segnalano voglia di vivere in una città infinita – espressione odiosa ma utile - sempre più deprimente). Ma fatemi continuare col rubricone. BUSINESS ORIENTED - E’ il linguaggio degli uffici, delle riunioni, dei managerini dei manageroni e degli aspiranti tali. I sani di mente che si guadagnano la vita in questi ambienti soffrono. Anche per i complimenti: non si sentono dire che sono competenti bensì «skillati» (dall’inglese skills). Non lavorano in gruppo ma in team, non si riuniscono fanno meetings; non parlano, si interfacciano. Quando fissano incontri per qualcuno schedulano. Come scrive una provatissima Eva K. «meglio pensare al dopoufficio, happy hour o training nel fitness club». Poi certo che il Paese versa in una crisi strutturale, come fa una/uno a illustrare una buona idea con quelle parole. BUONI SENTIMENTI DELLA SETTIMANA - Servono a evitare inutili atti di violenza. Genere Nanni Moretti in Palombella rossa, quando schiaffeggia la giornalista urlando «ma come parli» e sentenziando «le parole sono importanti. Chi parla male pensa male e vive male» . Spesso è vero. Ma vale la pena di riflettere un momento. E’ proprio necessario scartare un interlocutore perché usa, ogni tanto, espressioni irritanti? Data la crisi strutturale di cui sopra, non sarebbe il caso di stare a sentire – col traduttore automatico - e di cercare di capire se il senso di quelle espressioni ha senso? E poi, quando si lega ci si influenza a vicenda. Gli amici e i colleghi solidali creano tra loro degli idioletti, dei privati dialetti con espressioni e definizioni nuovi e creativi; altro che «assolutamente sì». Vale la pena di provarci. Tranne con gli irriducibili di Vip-trend-esclusivo forse, anche alla tolleranza, e all’italico consociativismo, c’è un limite. Se poi lo si supera, sentite, vabbè. 04 ottobre 2005 (www.corriere.it)  
 
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